Ho 38 anni e mi identifico come non binary. Nasco femmina, anche se ho sempre percepito qualcosa che mi piace chiamare “insofferenza di genere”. Di sicuro ho sempre provato stupore e incomprensione di fronte agli stereotipi di genere in cui non mi sono mai ritrovato (anche aiutato dal fatto che i miei genitori, pur cattolicissimi, non mi hanno mai costretto in ruoli che non mi appartenevano, dall’abbigliamento, ai giochi e così via.)
Teorie riparative, il racconto di E. a Gay.it: “Avevo bisogno di aiuto ma la psicologa voleva farmi tornare ‘normale’”

Una persona non binaria di 38 anni va in analisi  da una psicoterapeuta per una forte depressione ignorata a lungo.

La depressione passa,  ma alcune opinioni errate della professionista mantengono il suo paziente in una condizione di sofferenza e non accettazione. La psicoterapeuta non prova direttamente a cambiare l’identità di genere né l’orientamento sessuale  del suo paziente ma esprime giudizi  negativi e tendenziosi, deontologicamente discutibii,  su di lui.

Ogni volta che il suo paziente parla della percezione di sé, di non sentire bisogno di avere un genere, la professionista gli dice che è una persona indecisa, che non sa scegliere, e che nella vita bisogna scegliere tra maschio e femmina.

In riferimento all’innamoramento della persona non binaria per una donna, senza che questi sentimenti siano stati presentati come un problema, la psicoterapeuta li delegittima interpretandoli come espressione di invidia: il desiderio per la amata non è basato su un vero  amore ma sulla determinazione di avere qualcosa che lei non ha e che la persona che lei  crede di amare sì.

Quando il paziente fa coming out con la madre come persona non  binaria  la psicoterapeuta gli dice che lo ha fatto apposta con l’intenzione di metterla in difficoltà,  perché non c’è una vera necessità di parlare della sua identità di  genere.
La madre, in realtà, prende la cosa molto  bene.
Questa idea che il coming out  avrebbe potuto far male alla madre mette il paziente in confusione, non riesce a parlarne col padre,  inizia  ad avere attacchi d’ansia temendo che il padre lo potesse venire a sapere. Quando anche il padre lo saprà avrà anche lui una reazione positiva come la madre.

Quando il paziente dopo anni di sedute così giudicanti decide di cambiare terapeuta prova una sensazione di rinascita:  questa nuova professionista, aperta, priva di pregiudizi, formata su tanti temi per lei fondamentali, le cambia la vita.

Secondo i dati più recenti* tra le figure professionali della psicologia, solo una persona su cinque considera possibile modificare l’orientamento sessuale se richiesto dal paziente. Nel 2013 lo considerava possibile 1 su 2, un dato che riassumeva una ricerca che coinvolgeva 5 regioni (Campania, Emilia Romagna, Lazio, Piemonte e Puglia).

Sempre secondo il follow up del progetto APO  una figura professionale su cinque  si sente adeguatamente preparata sui temi dell’omosessualità, mentre il 45% in Lombardia e il 36% in Sicilia delle fiure professionali  si sentono poco o per nulla preparate.

Infine una persona su dieci dubita che l’omosessualità sia una variabile naturale del comportamento umano come stabilito dall’OMS nel 1990.

Questi  dati  testimoniano l’arretratezza culturale di un Paese che sembra non voler rinunciare ai pregiudizi e a un immaginario tossico e discriminatorio che mette a rischio la salute fisica e mentale di tante persone.

Rispondere con fermezza a chi è possibilista nei confronti  dei  trattamenti di conversione indica la strada per un rinnovamento culturale che riguarda un intero paese perché i pregiudizi  sull’orientamento sessuale e l’identità di genere colpiscono tutte le persone che in base alla retorica della devianza non rientrano nei restrittivi  stereotipi di genere.

* dai follow up del progetto APO (Lingiardi, Nardelli 2013), che riguardano le regioni Lombardia (2017) e Sicilia (2022).